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    L’avvocato che disse “no” alla mafia.

    Carmen Greco, La Sicilia, 9 XI 2019

    Catania, 24 anni dall’omicidio Famà L’avvocato che non si piegò al boss

    Il 9 novembre è l’anniversario dell’assassinio del penalista che nel 1995 pagò con la vita il suo “no” ad una richiesta dell’allora reggente del clan Laudani, Pippo Di Giacomo, poi divenuto collaboratore di giustizia

    CATANIA – Oggi, 9 novembre 2019 non sono solo i trent’anni della caduta del muro di Berlino, ma anche l’anniversario di un omicidio che segnò la storia di Catania e il mondo dell’avvocatura, quello del penalista Serafino Famà.

    Famà, venne ucciso, la sera del 9 novembre del 1995 da due killer di mafia che lo attesero all’uscita dal suo studio in viale Raffaello Sanzio, nel piazzale che oggi porta il suo nome. L’avvocato era in compagnia di un giovane collega. I sicari esplosero sei colpi di pistola calibro 7,65 che colpirono l’avvocato Famà il quale morì poco dopo nonostante l’inutile corsa in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale Garibaldi.

    Il movente – si seppe in seguito – fu un “no” di Famà al boss Giuseppe Di Giacomo, ex reggente del clan Laudani, passato anni dopo a collaborare con la giustizia. Fu lui, infatti ad emettere la sentenza di morte nei confronti dell’avvocato, professionista appassionato, rigoroso e di grande umanità. Pippo Di Giacomo non era un cliente difeso da Famà, ma dal collega, Bonfiglio. Su Famà sarebbe stata scaricata la colpa di quella difesa che – secondo il boss – non gli aveva portato risultati. Di Giacomo era stato poi condannato all’ergastolo.

    Per l’omicidio Famà furono condannati all’ergastolo sette mafiosi catanesi, ergastoli poi confermati dalla Cassazione nel giugno del 2002. I loro nomi: Fulvio Amante, Salvatore Catti, Giuseppe Maria Di Giacomo, Camillo Fichera, Gaetano Gangi, Salvatore Torrisi,  Matteo Di Mauro, tutti indicati come appartenenti alla cosca dei Laudani soprannominati i “muss’i ficurinia”. Di Giacomo, come detto, fu il mandante dell’omicidio, mentre Torrisi e Catti furono gli esecutori materiali del delitto. Gli altri tre, Amante, Gangi e Fichera, fornirono apporto logistico, garantendo le auto e le armi.

    L’omidicio Famà – la Camera penale di Catania porta oggi il suo nome – arrivò in un momento molto particolare per la città di Catania, segnata in quegli anni da guerre di mafia e da vendette nei confronti di esponenti delle forze dell’Ordine. Senza contare che poco più di tre mesi prima era stata assassinata in casa sua Grazia Minniti, la moglie del boss ergastolano Nitto Santapaola.

    Era la prima volta che in città la mafia alzava il tiro contro un avvocato. In precedenza erano stati uccisi l’ispettore della polizia di Stato, Giovanni Lizzio, assassinato in macchina mentre aspettava che scattasse il semaforo, in via Leucatia, a Catania il 27 luglio del 1992 e – il 25  marzo del ’94 – l’ispettore della polizia penitenziaria Luigi Bodenza, anche lui ucciso in un agguato il 25 marzo del ’94 in un agguato a Gravina, mentre in auto stava rientrando a casa. Per l’omicidio di Lizzio il mandante fu il boss Nitto Santapaola, per Bodenza, lo stesso Pippo Di Giacomo, mandante dell’omicidio Famà.

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